Cinema e franchise: prima volevamo solo un uovo, oggi abbiamo riempito il botteghino di galline
La folle corsa hollywoodiana alla ricerca del guadagno serializzato ha profondamente modificato la concezione che abbiamo del cinema ai nostri giorni. Se a questo strumento di espressione è sempre stato dedicato il nome di “settima arte“, oggi possiamo tranquillamente parlare di strumento di comunicazione seriale.
Non serve ormai una grande attenzione critica per rendersi conto di come l’offerta cinematografica ai nostri giorni (soprattutto in Italia) sia costantemente canalizzata verso due tipologie di produzioni: commedia e supereroi.
Negli ultimi due anni questi due generi hanno avuto una tale fortuna da distruggere qualsiasi record realizzato prima in termini di vendite, soprattutto per una caratteristica principale: la creazione di franchise. Ma che cosa intendiamo con franchise?
Il termine inglese media franchise (o più comunemente, franchise) si riferisce alla costruzione di un brand, o marchio, che viene sfruttato per diversi prodotti dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento, specialmente in ambito cinematografico e televisivo. Il franchise è, in tal senso, la modalità produttiva più usata dalle grandi aziende hollywoodiane e dalle produzioni statunitensi. Attraverso questa formula produttiva viene richiesto agli sceneggiatori di creare un universo narrativo o di andare letteralmente a scavare in una produzione esistente (ad esempio in un mondo di supereroi del fumetto) e di creare una linea narrativa che permetta di generare serial e sequel che mantengono alta l’attenzione degli spettatori fino all’uscita nelle sale dell’episodio successivo.
Per questo motivo, lo spettatore si è adattato alla somministrazione di storie dalla forte sequenzialità e, soprattutto, ricerca il meccanismo di marketing più della funzione narrativa del prodotto cinematografico. In poche parole, meglio una gallina oggi che un uovo domani.
Ma per quale motivo abbiamo iniziato a ragionare in questo modo? A mio modesto avviso, bisogna innanzitutto andare a ricercare le cause nella popolarità del mezzo televisivo e dei suoi prodotti seriali. Gli spettatori sono cambiati perché nelle loro case sono arrivati tanti prodotti di qualità e un’offerta davvero incredibile. Basti pensare che il solo Netflix ha raggiunto nell’ultimo trimestre 2015 un fatturato pari a 1,823 miliardi di dollari e profitti per 43 milioni, se vogliamo tenere conto soltanto di uno dei player che abitano il mercato mondiale (per il mercato italiano Sky e Mediaset offrono una grande quantità di contenuti sia in TV che On demand).
Non era mai accaduto che la produzione televisiva raggiungesse dei risultati di qualità così elevati, raccogliendo nel cast attori e registi che prima orbitavano soltanto intorno al mondo cinematografico. Per questo motivo, apparentemente, la televisione ha creato un precedente importante. La serialità con contenuti di una qualità superiore avrebbe potuto mettere in crisi quello che il cinema stava producendo finora: storie con un inizio e una fine. Si badi bene però, il meccanismo seriale non è una novità nell’ambito dell’industria culturale. Il romanzo d’appendice, o feuilletton, ad esempio, è un genere di romanzo che si è diffuso nei primi decenni dell’Ottocento. Si trattava di un romanzo che usciva su un quotidiano o una rivista, a episodi di poche pagine pubblicati in genere la domenica che permetteva ai primi giornali francesi che adottarono questo escamotage, di vendere numerose copie dell’edizione domenicale che precedentemente non prometteva grandi tirature.
Non è quindi un caso che prodotti come LOST, Breaking Bad o Il Trono di Spade, abbiano lasciato maturare in noi spettatori un desiderio di conoscenza che, spesso e volentieri, non si spegne con l’apparizione dei titoli di coda (o, ancora meglio, con le post-credit scenes) ma viene costantemente alimentato dalla somministrazione di teaser, trailer e informazioni sulla produzione. Se anche in questo blog ricevete spesso delle news sui prossimi film in uscita nelle sale, tutto rientra in un meccanismo in cui esiste una sorta di Deus Ex Machina che ha deciso a priori di farci avere un determinato tipo di informazioni e ha strutturato le storie in modo tale da permetterci di confrontarci online sui social, nei forum, nei gruppi su facebook e in ogni luogo di aggregazione.
I nuovi prodotti appartenenti ai vari universi cinematografici e ai franchise della Disney come quelli legati al fenomeno Avengers e Star Wars sono quindi una serie di film che non vanno considerati sotto un’ottica singola, ma appartenenti a una narrazione corale. C’è da dire, riprendendo un articolo che ho già scritto per Wired Italia e riportato anche su SHIFTS!, che il meccanismo alla base di queste nuove produzioni sia quello di generare fondamentalmente hype, ovvero entusiasmo, più che esperienza. Entusiasmo per un brand che vive di prodotti altri dal film al cinema e che non esaurisce il racconto in sala, ma amplia l’attività narrativa ad ulteriori mezzi come il videogioco, il fumetto, la sempreverde televisione.
Per questo genere di produzioni, assistere ad un film al cinema significa conoscere e osservare elementi di un puzzle. Ci vengono introdotti nuovi personaggi che faranno parte di film stand-alone successivamente e ci vengono anticipati elementi delle trame di altri film che non potremo fare a meno di vedere successivamente. In maniera anche fin troppo ammiccante, aggiungerei.
Il risultato? Una fidelizzazione massiva volta alla creazione di un calendario di uscite cinematografiche che, a ben guardare, ci mettono in attesa ogni anno (oppure ogni due mesi?) della stessa gallina dalle uova d’oro.
In questo meccanismo è giusto lasciarsi andare alla spensieratezza di un paio d’ore passate al cinema, ma a lungo andare le produzioni dovranno rendersi conto che abbiamo bisogno di qualcosa in più. Altrimenti si rischia di riempire la sala di polli sulle poltrone, piuttosto che di galline nello schermo.
“In questo meccanismo è giusto lasciarsi andare alla spensieratezza di un paio d’ore passate al cinema, ma a lungo andare le produzioni dovranno rendersi conto che abbiamo bisogno di qualcosa in più. Altrimenti si rischia di riempire la sala di polli sulle poltrone, piuttosto che di galline nello schermo.”
Già! Vediamo un pò che ci propone il prossimo decennio!