Big Eyes, una nuova estetica per Tim Burton?
Mentre leggete la recensione ascoltate questo brano tratto dalla colonna sonora che annovera due grandi nomi: Lana Del Rey e il mitico Danny Elfman.
Big Eyes è il nuovo Tim Burton, iconico e citazionista, quel Burton che non ti aspetti nel momento in cui ti siedi sulla poltrona danti al grande schermo e, in attesa del nuovo episodio gotico con personaggi simil-JohnnyDepp, ti ritrovi danti una sorta di giovane Woody Allen che sa raccontare meglio di chiunque altro l’anima di una giovane artista e del suo amante.
Leggendo le prime opinioni su twitter ho notato che in molti hanno criticato la scelta del regista di allontanarsi dalle sue violente ambizioni al noir, per dedicarsi a qualcosa di completamente diverso. In tanti si sono sbagliati, a mio modesto viso.
Burton non abbandona lo stile della sua regia ma lo amplifica in una nuova veste. I suoi personaggi sono intrappolati nei quadri della giovane artista di cui racconta la storia e magistralmente interpretata da Amy Adams. A dirla tutta, la buona riuscita di questo film sta nell’accompagnamento dello spettatore in un abisso di incoerente follia che sfocia nella selvaggia arringa finale del sagace Walter Keane (e Cristoph Waltz chi lo ferma più in quel momento?), costretto a difendersi dalla sua stessa apparente ambizione. Margaret e Walter sono due facce della stessa medaglia, necessari per l’esplosione delle loro vite e delle loro carriere ma che, vittime dei loro tempi e delle loro necessità, non hanno saputo gestire il loro rapporto di fiducia.
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Cosa c’è di diverso dalle ambizioni folli che hanno portato Jack Skellington a rubare il natale oppure Edward D. Wood Jr. a cercare i mezzi per il proprio debutto nel mondo del cinema?
Burton è riuscito a ricreare l’iconografia dei tempi e, allo stesso tempo, a raccontare l’arte nella sua mutevole discesa verso gli inferi del marketing in modo astuto ed emozionante.
La mia scena preferita è quella in cui Margaret si trova al supermercato e infila nel carrello una confezione di fagioli Campbell (vi ricordano nulla?), subito dopo si rende conto della mercificazione dei suoi quadri ad opera di Walter che, da uomo di mercato, ha creato una linea di stampe e merchandising per il pubblico. Più anti nel film lui stesso rivelerà che Warhol gli rebbe rubato la visione commerciale dell’opera d’arte.
Insomma in una visione confezionata dell’artista e delle sue opere non ci sarebbe spazio per le teorie di Benjamin e della perdita d’aura in seguito alla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Ed è proprio in tal senso che Margaret perde la sua aura, quella stessa forza che traspare dai suoi quadri e che tanto vengono ricercati dal mondo intero.
Vi consiglio di guardare questo film con gli occhi più grandi che ete, troverete il vostro regista preferito. Quello nuovo, quello di sempre.